Sostenibilità e sviluppo sostenibile

È da un po’ che rifletto sul vero significato della parola sostenibilità, cercando di capire cosa possa essere considerato sostenibile e cosa non.
L’idea diffusa è che la sostenibilità sia qualcosa di complesso perseguibile solamente dalle grandi multinazionali. In poche parole, si pensa che la sostenibilità sia fatta da grandi ed onerosi progetti come la costruzione di scuole in paesi del terzo mondo o il rifornimento di derrate alimentari in paesi in via di sviluppo.
Quello che vorrei cercare di mettere in evidenza è che esiste un linea sottile tra  filantropia e sostenibilità, ma se da un lato l’obiettivo è solo il greenwashing reputazionale dall’altro, invece, si percorre la strada dello sviluppo sostenibile.

La sostenibilità è uno di quei “termini di moda” che negli ultimi decenni è stato utilizzato e consumato in modo sregolato. Nel corso di questi anni, il significato di questa parola, o meglio il valore ad essa attribuito, non è rimasto fisso ma è mutato frequentemente fino ad assumere la connotazione che ne stiamo dando. La sostenibilità contemporanea è un “boundary term” in cui molte discipline si mescolano tra loro e dove l’interesse per lo sviluppo economico inevitabilmente si sovrappone con quello ambientale (Ian Scoones, 2007)[1].

Nella riflessione sul rapporto che esiste tra sostenibilità ed industria alimentare, diviene fondamentale approfondire anche il concetto di sviluppo sostenibile. Se la sostenibilità di un’impresa è la sua capacità di perdurare nel tempo senza interruzioni e senza fallimenti, lo sviluppo sostenibile è la declinazione del concetto di sostenibilità nelle tre dimensioni che riguardano l’industria: ambientale, sociale ed economica (Margaret Robertson, 2017)[2].

Lo sviluppo sostenibile è un concetto molto ambiguo e variabile che negli ultimi anni è entrato prepotentemente nel dibattito riguardante il rapporto tra economia, cambiamenti climatici e salvaguardia ambientale. L’ambiguità di questo termine è dovuta alla sua non chiara definizione che, nel corso della storia, è cambiata frequentemente senza che si riuscisse mai a trovare un trait d’union. Di fatto, si è assistito e si assiste ancora oggi ad una strumentalizzazione di questo termine dove l’obiettivo non sembra tanto quello di trovare una definizione reale e condivisibile, ma piuttosto di connotare questo sviluppo in funzione delle necessità e delle intenzioni di chi ne parla. In questo lavoro si cercherà di far emergere, attraverso la storia dell’evoluzione di questo concetto, un’idea di sviluppo sostenibile e di sostenibilità imparziale ed oggettiva, non legata ad una visione marginale ma ad un approccio più olistico ed ecologico. Si iniziò a parlare seriamente di sviluppo sostenibile nel 1987 quando la Commissione Mondiale sull’Ambiente e lo Sviluppo (WCED) delle Nazioni Unite lo definì come “uno sviluppo in grado di soddisfare i bisogni delle generazioni attuali senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni[3] (World Commission on Environment and Development, 1987).

Dal 1987, i saggi relativi alla teorizzazione dello sviluppo sostenibile crebbero in modo vertiginoso; nel 1991 la World Conservation Union, il UN Environment Programme e la World Wide Fund for Nature indicarono lo sviluppo sostenibile come “un miglioramento della qualità della vita, senza eccedere la capacità di carico degli ecosistemi di supporto, dai quali essa dipende”[4].
Se la definizione della Brundtland era solamente incentrata sulla responsabilità tra generazioni e sul soddisfacimento dei bisogni umani, quest’altra tratteggiò lo sviluppo sostenibile come un possibile beneficio per la natura in grado anche di migliorare la qualità della vita dell’uomo.

Nello stesso anno Herman Daly, esponente dell’economia ecologica, spiegò all’interno della sua trattazione l’importanza di un equilibrio tra l’uomo e l’ecosistema; un equilibrio in cui il capitale umano e quello naturale non sono totalmente complementari o intercambiabili, ma dove tutti e due i capitali devono essere mantenuti intatti poiché la produttività di uno dipende dalla disponibilità dell’altro. La sostenibilità di Daly era sicuramente una sostenibilità forte in cui una causa materiale non può essere sostituita con una causa efficiente e dove le due dimensioni, quella umana e quella naturale, sono equivalentemente fondamentali (Herman Daly, 1991).

Pochi anni dopo, nel 1994, l’International Council for Local Environmental Initiatives fornì un’ulteriore definizione di sviluppo sostenibile; “sviluppo che offre servizi ambientali, sociali ed economici di base a tutti i membri di una comunità, senza minacciare il funzionamento dei sistemi naturali da cui dipende la fornitura di tali servizi[5] (International Council for Local Environmental Initiatives, 1994).

In questa definizione mettendo in correlazione la dimensione ambientale, quella sociale e quella economica, l’ICLEI evidenziò l’idea che qualsiasi programmazione “sostenibile” non potesse prescindere da queste dimensioni e, di conseguenza, dalle loro interazioni.

L’ultimo mattone nella costruzione di un’idea ecologica di sviluppo sostenibile fu posto dall’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura), che nella Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale sostenendo l’importanza della diversità culturale e della biodiversità naturale affiancò all’equilibro tra economia, società ed ambiente, precedentemente proposto dall’ICLEI, anche la preservazione della diversità culturale (UNESCO,2001)[6].

L’evoluzione del concetto di sviluppo sostenibile mostra perfettamente la sua multidimensionalità e la sua natura ecologica. Equità sociale, attenzione ambientale, sostenibilità economica e salvaguardia della biodiversità sono facce di una stessa medaglia, inscindibili l’una dall’altra e legate intrinsecamente.
Insomma, la vera sostenibilità è fatta di azioni che migliorano le condizioni ambientali, sociali ed economiche senza andare a compromettere la vita di nessun altro. Declinata a livello aziendale questa idea di sostenibilità si trasforma in progetti legati ad attività inerenti al core business che, facendosi carico di problematiche specifiche, si pongono l’obiettivo di determinare un miglioramento delle condizioni ambientali, sociali ed economiche nelle comunità in cui operano, traendone se possibile anche un vantaggio competitivo.

Come sottolineato da Ian Scoones (2007), il rischio di queste “parole gettonate” , come sostenibilità e sviluppo sostenibile, è di divenire mainstream ed essere incorporate all’interno della routine aziendale; in questo modo, la semplicità manageriale di molte iniziative etichettate come sostenibili e la superficialità nel trattare il tema divengono le armi principali di chi critica l’idea di sviluppo sostenibile e di chi non crede nella necessità di investire nella responsabilità sociale d’impresa.

 

[1] Scoones, I. (2007), Development in practice, Vol. 17, pp. 589-596, Gran Bretagna, Taylor & Francis
[2] Robertson, M. (2017), Sustainability: Principles and Practice, USA, Routledge – Earthscan
[3] World Commission on Environment and Development (1987), Our Common Future, Gran Bretagna, Oxford University Press
[4] The World Conservation Union, UN Environment Programme e World Wide Fund for Nature (1991), Caring for the Earth: A Strategy for Sustainable Living, Italia, Almadue
[5] International Council for Local Environmental Initiatives, 1994
[6] UNESCO (2001), Art. 1 e Art. 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale




FOMM in Green

Non è spacconeria o sfacciataggine, è una necessità. È l’urgenza di confrontarmi ed affrontare argomenti di grande attualità che sento profondamente vicini.
Durante il mio percorso universitario alla passione per la gastronomia e all’interesse per il cibo si è affiancato prepotentemente il desiderio di fare qualcosa che mi realizzasse anche eticamente. Ecologia, green marketing e sostenibilità sono solo alcuni dei campi che ho iniziato ad approfondire attraverso libri, documentari ed articoli e che hanno acceso in me il desiderio di aprire questo nuovo capitolo.
Da qui, nasce l’idea di affiancare ai soliti articoli legati ad esperienze gastronomiche, che comunque resteranno il cuore pulsante di FOMM, riflessioni approfondite su tematiche che direttamente o in modo trasversale parlano di cibo e sostenibilità.

 

Perché la sostenibilità?

Nel 2014, all’interno del suo ultimo report pubblicato, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha mostrato con chiarezza inequivocabile la gravità della situazione globale rispetto ad i cambiamenti climatici. Nel report, l’IPCC ha indicato le emissioni antropogeniche di gas serra come la causa principale del riscaldamento dell’atmosfera e degli oceani, della diminuzione della quantità di neve e ghiaccio e del conseguente innalzamento del livello del mare. Secondo il panel di esperti, la concentrazione misurata di diossido di carbonio, metano e protossido di azoto sono state le più elevate degli ultimi 800.000 anni. Questi cambiamenti hanno palesato un’evidente fragilità dei sistemi naturali ed una conseguente difficoltà nell’adattarsi in modo repentino a questa nuova ed inaspettata situazione. Per questo motivo, l’IPCC ha evidenziato come il rischio non sia solo di dover affrontare seri problemi ambientali nel breve termine, ma che si assista a cambiamenti definitivi del sistema climatico in grado di determinare gravi ed irreversibili effetti sugli ecosistemi e sulla vita delle persone.

Il nostro pianeta si sta sgretolando; deforestazione, perdita di biodiversità, scioglimento dei ghiacciai, aumento delle temperature globali e migrazioni di massa sono solo alcune delle più dirette conseguenze del modello malato di mercato e di consumo alimentare che ha pervaso la nostra società. Ci troviamo nel pieno di un fenomeno che molti scienziati hanno definito Global Environmental Change (GEC), cioè un cambiamento di dimensioni globali della Terra indotto dalla specie umana, i cui effetti sono equivalenti a quelli prodotti dalle grandi forze naturali che hanno modificato il nostro pianeta in tutta la sua storia [1].

Il mondo nell’ultimo secolo ha subito dei mutamenti che lo hanno completamente trasformato, ridefinendo radicalmente persino il modo in cui le persone si relazionano tra di loro. Questo cambiamento, alimentato soprattutto dallo sviluppo tecnologico, ha da un lato migliorato in modo evidentissimo la qualità della vita delle persone, ma dall’altro ha portato alla formazione di sistemi e logiche di mercato, mirati solamente al profitto, che ormai di logico non hanno più nulla.

La crescita economica esasperata perseguita nell’ultimo secolo, si è inevitabilmente scontrata con la “capacità di carico” del nostro pianeta. Questo, infatti, non è stato in grado di far fronte ad anni di manovre economiche mirate al raggiungimento di obiettivi immediati, in cui le prospettive di guadagno a breve termine oscuravano qualsiasi riflessione sulle possibili esternalità di queste sull’ambiente e sulla società.

La nostra generazione sta affrontando e dovrà affrontare la sfida di rendere compatibile le attività e lo sviluppo economico con il nostro pianeta, evitando però di distruggere ulteriormente i sistemi naturali dai quali deriviamo e senza i quali non possiamo vivere. L’obiettivo sarà quello di ridurre l’impronta ecologica, principalmente dei paesi ad alto reddito, promuovendo un cambiamento nei modelli economici e di consumo alimentare in modo da permettere la conservazione delle risorse naturali ed il soddisfacimento dei bisogni di tutte le comunità.

PROMETTO CHE NON SARA’ UN’ALTRA GREEN REVOLUTION

[1] Bologna, G. (2013), Sostenibilità in pillole: per imparare a vivere su un solo pianeta, Italia, Edizioni Ambiente